ARCHITETTURE DEL VINO

Cantine di cui anche Bacco andrebbe fiero

Premessa

La formulazione del titolo preconizza già un capitolo piuttosto lungo, irto di difficoltà e complesso, ma è anche molto appassionante e importante: diciamo un capitolo fondamentale della Tesi di Laurea.

Infatti la sfida che ci siamo proposti è quella di ripercorrere tutte, o quasi, le tappe fondamentali che hanno caratterizzato la storia vitivinicola generale e quella trevigiana in particolare, dalla preistoria sino al debutto del Novecento (il “secolo corto” è affrontato in una seconda parte), attraverso il racconto storico-tipologico-architettonico delle “cantine”.

Le ricostruzioni delle palafitte preistoriche, i rilievi delle casette seminterrate paleovenete e plavensi con accanto le prime fosse di lavorazione, i resti archeologici delle pars rustiche romane con i lacus vinari, i racconti descrittivi delle cantine nei castelli medievali trevigiani, le cantine dei monasteri benedettini e delle abbazie cistercensi pedemontane, i primi organici progetti degli annessi rurali-vinicoli delle Ville Rinascimentali, le cantine voltate settecentesche e ottocentesche, per concludere con le moderne e post-moderne costruzioni enotecniche hanno pertanto l’arduo compito di condurre tale analisi.

Il racconto tuttavia non si limita ad una banale elencazione di una ricostruzione degli eventi solo tecnico-costruttivi, fuori cioè dalla trama storica. Esso è una descrizione che coinvolge anche quegli aspetti più importanti che hanno caratterizzato la vita delle popolazioni rurali e delle campagne della Marca, così come della vita politico-militare, sociale, civile, appunto storica.

Malgrado il buon intento, taluni periodi storici sono stati caratterizzati e rappresentati in modo insufficiente e questo perché, nel territorio di Treviso, i riferimenti archeologici e tipologici o sono nella loro funzionalità troppo incerti, oppure sono totalmente inesistenti. Abbiamo dovuto perciò prendere a riferimento le zone delle Province limitrofe o addirittura delle Regioni confinanti.

Quest’ultima difficoltà peraltro non ha costituito un ripiego negativo, tale cioè da sminuirne la ricerca, perché dal punto di vista archeologico, specie nel settore rurale, il territorio Veneto nelle sue articolazioni aveva ed ha dei punti in comune con le altre realtà confinanti o quantomeno con le aree più prossime ad esso.

Procediamo dunque con l’analisi, iniziando da quell’era che viene inserita in quella fase chiamata «prima della storia» e che ha segnato, almeno secondo noi, il primordiale tentativo di una ricerca tecnologica-costruttiva e la realizzazione delle primitive e rudimentali strutture enotecniche.

1.1 La Preistoria: agli albori delle prime strutture vinicole?

Improvvido, sembra essere il tentativo di suggellare l’origine delle “strutture vinicole” moderne e stabilire che l’anticamera delle cantine risalga proprio alla fase della Preistoria o ancor prima.

Per ciò è necessario da una parte formulare delle premesse e dall’altra stabilire alcuni punti d’appoggio per supportare tale ipotesi.

Le premesse riguardano la ricostruzione descrittiva e analitica del paesaggio indigeno, i principali attori del mondo pre-agricolo con l’ambiente circostante e i rapporti che s’instaurano tra di essi. Al riguardo per affrontare e capire il percorso preistorico, occorre a nostro avviso, porre tra le premesse anche dei capisaldi che esulano strettamente dal contesto enotecnico-strutturale.

I punti d’appoggio sono basati su studi e ricerche di illustri luminari che testimoniano nei fatti un doppio filo conduttore che lega in un cammino comune il nostro piccolo territorio con quello europeo.

Così, quantomeno nell’ultima era della Preistoria fioriva, tra le piante selvatiche, anche la più importante delle infestanti e cioè la Vitis Vinifera Silvestris e come le altre, proprio per la sua natura, cresceva spontaneamente e ovunque l’uomo lasciava dei detriti e dei rifiuti organici. La vite selvatica, per la fertilità dei suoi frutti, era guardata con un particolare interesse anche se altre piante infestanti erano dotate di bacche come ad esempio il sambuco, il rovo, il corniolo, ecc., dalle quali, previo la spremitura, similmente si potevano trarre dei liquidi alimentari.

Ora le domande nascono spontanee e si rincorrono: le popolazioni pre-agricole e nomadi erano a conoscenza delle proprietà fermentative dei frutti pigiati anzidetti?; e se la risposta dovesse essere affermativa, come e in che modo preparavano le bevande alcoliche per alimentarsi?; con quali mezzi e con quali attrezzi?; e tali primordiali mezzi, se vi sono stati, possiamo noi oggi considerarli l’anticamera di una strumentazione coordinata, atta cioè alla produzione del vino (e non solo d’uva)?; e per finire, potrebbero aver costituito il primo passo verso la definizione della cantina vinicola moderna?

Le risposte richiedono un’analisi che deve procedere per piccoli passi, per non tralasciare alcun insignificante particolare.

Quando gli esperti paleobotanici citano la Vitis Vinifera Silvestris intendono riferirsi alla vite selvatica, la quale parrebbe non si ambientasse ottimamente negli ambienti aridi (Sereni E., 1964), mentre in quelli umidi, tipici del nord della penisola, tale pianta sembrerebbe trovare il proprio habitat congeniale (Forni G., 1996). La caratteristica che più la distingue, come abbiamo detto, è il comportamento “innato” di infestante che, però, la fa prevalere sulle altre fruttifere anch’esse infestanti, come ad esempio il pomodoro, il girasole, ma anche il sambuco, il pero, ecc. Peraltro ad aggiungersi si deve anche la straordinaria varietà dei grappoli d’uva. Ciò detto, la facilità di riproduzione della pianta era forte anche in situazioni ed in aree poco curate dall’uomo come spesso accadeva negli accampamenti dei nomadi cacciatori-raccoglitori che, ricchi di detriti anche organici, immondizie di varia natura e tra le siepi, involontariamente agevolavano lo sviluppo delle infestanti (Forni G., 1996, p. 40).

Alla scomparsa graduale del modello di comunità nomade si sostituisce quello stabile e sedentario, con il quale si registra una espansione della presenza della Vitis Vinifera Silvestris. Inizia ora, da parte dell’uomo, un atteggiamento del tutto particolare nei confronti della pianta(1). Attratto dai rigogliosi frutti che la vite produce, egli oramai insediato stabilmente nel proprio villaggio palafitticolo, organizza le prime attente cure da cui deriveranno le coltivazioni dei vigneti(2).

Le prime lavorazioni effettuate sulle viti selvatiche aprono una lunga transizione e tale processo segna il primo passo verso la formazione di un modello di vite domesticoide e cioè di quelle: <<forme vegetali coltivate (anche inconsciamente) con modalità rudimentali, che non determinano modifiche evidenti morfologiche e genetiche ereditarie>> (Forni G., 1996, p. 44).

Ma è lapalissiano che proseguendo con tale processo il livello completo di domesticità, che verrà raggiunto intorno al 500 a. C.(3), non può che far pervenire alla piena civiltà la vite, in cui la Vitis Vinifera Sativa (domestica) si è nella sua natura completamente imposta attraverso le coltivazioni intensive (Forni G., 1996, p. 48).

La prima premessa evidenzia quindi la situazione evolutiva di una pianta, la vite, inseritasi ottimamente tra il contesto ambientale e l’uomo.

Ora ci avviamo ad affrontare la seconda premessa che, per inciso, trae spunto dallo studio di un famoso trattato del luminare prof. Werth(4) (Forni G., 1996, p. 27), nel quale viene approfondita la storia delle bevande alcoliche in relazione alle conoscenze, gli usi e le consuetudini delle popolazioni primordiali.

Egli infatti, come riporta anche il Forni (1996, p. 27), nel verificare la presenza e l’uso dei liquidi al fine alimentare e non solo da parte di quasi tutte le civiltà umane(5), dalle pre-agricole, ai cacciatori-raccoglitori, agli agricoltori, dai zappatori della terra, di ogni estrazione sociale ed economica, ecc., aggiunge anche quella civiltà più remota che si formalizzava nel modello di comunità dedito al nomadismo.

Nei nomadi l’uso di bevande alcoliche, contenenti cioè quei liquidi zuccherini che permettono la famosa fermentazione, era noto e praticato anche se, osserva l’autore, le operazioni per produrre l’alimento e la inevitabile loro conservazione doveva essere ostacolata e, nella migliore delle ipotesi, frenata proprio per la condizione sociale insita nel modello di vita delle popolazioni erranti (Forni G., 1975, p. 20-25; Maurizio A., 1970, p. 1-21). Pur tuttavia, il Werth ritiene che simili modelli sociali di comunità fossero a conoscenza delle caratteristiche fermentative dei liquidi alcolici e almeno in parte la praticassero (Forni G., 1996, p. 28).

Il Werth basa queste sue conclusioni a seguito dei riscontri effettuati su alcune popolazioni aborigene (Forni G., 1996, p. 28) mentre le osservazioni sui processi fermentativi, circa l’azione congiunta di più bacche mature raccolte ed ammucchiate, sono attestate da studi di archeologia sperimentale.

Il processo di pigiatura spontanea si esplica nello schiacciamento dei frutti sottostanti originando la ormai nota ammostatura e di conseguenza l’indotta “seconda fermentazione”.

Il Werth, concludendo il proprio trattato, afferma che: <<il vino - e per vino non intendeva specificatamente quello di uva (Forni G., 1996, p. 27), (ma aggiungiamo, anche quello d’uva selvatica)(6) - è verosimilmente antico come l’umanità stessa>> (Werth E., 1954, p. 228)(7).

Ora, anche il Fedele (1991, p.35) nel suo trattato, sostiene che <<il bere (bevande alcoliche) nella storia>> sia un’usanza da situare nella più remota preistoria ma, pur ammettendo ciò, sostiene che <<comunque l’archeologo vuole prove>> e così il Forni (1996, p. 31), nel suo dettagliato studio, spiega che negli automatismi naturali come quelli della fermentazione dei liquidi zuccherini il fenomeno non abbisogna di alcuna prova per essere certificato perché tale prova è indiretta e in analogia con precedenti reperti archeologici botanici e dunque da considerare comunque testimonianza diretta.

Con ciò il Forni attesta, dunque, in simbiosi con il Werth e tuttavia anche con il Fedele, che le bevande alcoliche (derivanti o meno dalla vite selvatica) venivano preparate, “confezionate” e conservate, nei modi ancorché rudimentali e poveri, pure dall’uomo preistorico(8) e questo basterebbe per rispondere alle domande poste ad inizio capitolo. Tuttavia non ci sembra abbastanza.

In risposta alla seconda parte dei quesiti posti e cioè a quella che allude ai mezzi e agli attrezzi per la produzione delle bevande alcoliche, ci affidiamo ad alcuni punti d’appoggio che traggono testimonianza dai più importanti ritrovamenti archeologici e archeobotanici rinvenuti in molte aree europee occidentali, italiane e della Val padana in particolar modo, ma anche ad intuizioni di illustri studiosi e professori del settore, che sicuramente sveleranno importanti conclusioni.

Gli elenchiamo:

-i ritrovamenti di alcune fascine di tralci di sola vite (probabilmente selvatica) raccolte a Ferrara (Borgatti, 1912) in un insediamento palafitticolo della prima età del Bronzo (1800 a.C.), ma probabilmente anteriori, potrebbero aver costituito, secondo il Forni (1996, p. 43), seguendo una tecnica di fabbricazione ad intreccio elementare precedente la tecnica agricola, dei materiali per costruire dei cesti e fungere da contenitori per la raccolta di bacche di ogni genere; peraltro se ben impermeabilizzati(9) con delle resine, avrebbero potuto formulare delle possibili soluzioni e forme di vasi vinari (Vellard D., 1939, p. 81; Forni G., 1975, p. 24; Forni G., 1996, p. 29);

-il prof. Paronetto (dell’Accademia Italiana della vite e del vino) nel suo saggio “Antica rinomanza vitivinicola della zona collinare subalpina veronese” menziona un’importante ritrovamento che è descritto nel seguente modo: <<Una prima utilizzazione dei succosi frutti della vite, si può dedurre dalla presenza dei vinaccioli, appartenenti alla vite selvatica, negli insediamenti palafitticoli, neolitici, del Lago di Garda>> (in Forni G., 1996, p. 509). E’ evidente come in questa descrizione, almeno secondo noi, sia palese il riferimento all’uso alternativo dei frutti della vitis vinifera.

-Il professore J.D.G. Clark - notissimo preistorico specializzato in tecniche dell’era preistorica - ci informa di un’importante scoperta secondo cui: <<..gli abitanti di Ertebolle delle coste danesi nel pre-neolitico si fabbricavano recipienti di ceramica>> (in l’Europe prehistorique, Paris, 1955, p. 309 e segg.) e, aggiunge, che i contenitori in corteccia erano utilizzati nella preistoria per conservare bevande alimentari e quindi anche del vino. Infatti, secondo quanto testimonia lo stesso Clark (1969, p. 265) e lo studioso Fedele (1991, p. 48) ciò è dimostrato da un reperto rinvenuto in una tomba preistorica dell’età del Bronzo, attorno al 1500 a. C., ad Egteved in Danimarca e che secondo le analisi eseguite sull’oggetto si tratta <<di un recipiente in corteccia di betulla e cucito con fibre di tiglio contenente sul fondo residui di feccia di una bevanda fermentata cui era stato aggiunto del miele per incrementare l’alcolicità>> (Forni G., 1975, pp. 24-25; Forni G., 1996, p. 35);

- il Ligers poi ci erudisce secondo alcuni usi che, anche all’inizio del XX° secolo (1954, pp. 30-31), venivano eseguiti con dei recipienti, boccali e tazze del materiale di cui al punto precedente e non solo come contenitori per i liquidi, semmai si utilizzavano le cortecce di sorbo, tiglio e nocciole per realizzare dei panieri (Forni G., 1996, p. 35);

-la conservazione delle bevande alimentari era praticata tramite il sistema dell’infossamento (10) (Forni G., 1996, p. 31) e questo è stato possibile solo grazie alle conoscenze fermentative, le cui procedure evidentemente erano note fin dall’antichità.

otriFig. 1- Otri, Museo Usi e Costumi della Gente Trentina.
(in Forni G., 1996, p. 77, fg. 13b)

Del resto i moltissimi reperti di residui di miele, di linfa di betulla, di palma, ecc., rinvenuti nei “silos” dimostrano quanto detto;

-il naturale procedimento per la produzione dei liquidi zuccherini (e del vino), derivanti dalle bacche di sambuco, di rovo, di corniolo, d’uva e quant’altro, impone che i frutti debbano essere prima sottoposti ad una operazione di spremitura perché da essi si origini un primo mosto, poi che questo debba essere raccolto in un qualche recipiente che, secondo il Forni, poteva anche essere contenuto <<in otri di facile realizzo, scuoiando a dito di guanto gli animali cacciati>> per conservarlo (fig. 1) (Forni G., 1975, p. 24; Forni G., 1996, p. 27). La ovvietà appena esposta è di una banalità allarmante, ma non è così se a ribadirla è il Presidente dell’Union Internationale des Oenologues e dell’Associazione Enotecnici Italiani, Ezio Rivella.

Egli afferma, infatti, citando la Bibbia nella premessa del libro “Impiantistica enologica, progettazione della piccola e media cantina moderna” dell’autore Aldo Bosi, che anche le Sacre Scritture pur non essendo rivolte alle tecnologie vinicole e in generale rurali, ma invece allo spirito dell’uomo, ad un certo punto descrivendo del vino <<sorvolano sulla fabbricazione della prima attrezzatura enologica>> ma tuttavia aggiunge che: <<..è chiaro che per fare il primo vino (d’uva) il Patriarca (Noè) avrà dovuto preparare come minimo un recipiente e che, almeno in embrione, l’impiantistica è stata concepita prima del concetto stesso del vino>> (1982, pp. 1-2). Più chiaro di così!;

-sempre dell’età del Bronzo (1800 a.C.) sono stati documentati reperti archeologici di piccoli depositi ammucchiati che certificavano l’operazione di pigiatura/spremitura di frutti diversi dalla vite selvatica, nell’ordine: per il corniolo i noccioli, siti in località Barche di Solferino, nelle palafitte golasecchiane di Varese, nelle palafitte di Peschiera (VR), Fimon (VI), Arquà (PD), Terramare di Parma; delle bacche di sambuco nelle palafitte di Peschiera; di rovo nelle palafitte di Fimon (Gambari F.M., 1994; Negri G., 1931; Sereni E., 1964);

-in molte stazioni palafitticole e terramaricole dell’Italia Settentrionale rispetto l’unico ritrovamento dell’Italia Centrale, quello di Belvedere (considerando le diverse condizioni ambientali climatologiche che resero difficile la conservazione dei semi), sono stati riscontrati numerosi reperti di semi di vite preistorici. La notevole quantità di tali reperti - secondo gli esperti archeobotanici - avvalorano l’ipotesi di una più larga diffusione della vite selvatica, ma soprattutto di una <<.(.).priorità nell’utilizzazione dei suoi frutti da parte delle locali popolazioni..>> (Liuni C.S., in Tomasi D., Cremonesi C. (a cura), 2000, p. 144). A spingersi più in là è lo stesso studioso Liuni il quale conferma che, mentre al sud la viticoltura si avvaleva di precise informazioni sulla tecnica di conduzione della vite originate da “Vitis Sativa” (domestica), al centro e al nord le popolazioni autoctone erano in grado di << .(.). condurre la Vitis Silvestris (selvatica) in modo atto a dare produzioni utilizzabili anche con la tecnica della fermentazione >> (Liuni C.S., 2000, pp. 142-144);

Esposte e descritte le premesse all’età preistorica, comprendendo soprattutto l’età Neolitica sino alla fine dell’età del Bronzo, ed elencate solo una minima parte delle tante testimonianze che attestano una più remota utilizzazione dei frutti d’uva selvatica e di altre bacche di piante infestanti, alle quali sono state applicate le medesime tecniche di fermentazione, possiamo con più forza sostenere la nostra ipotesi e per enunciarla ci serviamo di una importante conclusione del Werth secondo cui “Il vino – e per vino non intendeva specificatamente quello di uva – è verosimilmente antico come l’umanità stessa” (in Forni G., 1996, p. 27) che noi riprendiamo e parafrasiamo in: <<LA CANTINA – e per cantina non si intende specificatamente solo quella per la produzione del vino d’uva – E’ VEROSIMILMENTE ANTICA COME L’UMANITA’ STESSA>>.

Come è ovvio nell’ultima era della preistoria difficilmente esistevano cantine vere e proprie ma se noi interpretiamo il termine cantina come un disposto combinato di più apparecchiature e strumentazioni atte alle procedure di vinificazione, allora la definizione può trovare la sua ragione.

Insomma l’insieme dei vassoi, dei vasi in argilla, dei cesti costruiti con tralci di vite selvatica e resi impermeabili con delle resine, di dolie, di contenitori di grande o piccola stazza, di recipienti in corteccia, di boccali, dei pozzetti le cui pareti sono state trattate con dell’argilla e successivamente utilizzati come depositi di derrate (si veda Baldaria di Cologna Veneta), di buche e fosse scavate all’esterno delle palafitte neolitiche, unitamente alle lavorazioni (di spremitura, raccolta del liquido, ecc.) effettuate dall’uomo e scandite da un’ordinata successione di procedure hanno, secondo noi, posto quelle basi perché la tecnica vinicola si originasse.

Esiste tuttavia una diversità di opinioni riguardo l’origine delle cantine, almeno così sembra. Ufficialmente si ritiene che la civiltà della vite <<si realizzi prioritariamente a livello di piena domesticità>> (Forni G.,1996, p. 44) e cioè la si fa risalire al 500 a. C., anche se la Hopf (1991, pp. 272-273) data il passaggio dalla vitis silvestris a quella sativa tra la fine dell’età del Bronzo e quasi certamente in quella del Ferro. Alla luce di queste ultime conoscenze molti studiosi sembrano adombrare velatamente, se non avvalorare, la tesi per cui si dovrebbe far risalire l’origine dell’uso delle cantine, o di quelle prime apparecchiature rudimentali atte alle operazioni di vinificazione, in coincidenza con l’origine della civiltà della vite a cui si aggiungerebbe infine anche quella del vino.

Noi, come è chiaro, non siamo della stessa opinione e pensiamo di averlo dimostrato; tuttavia ribadiamo, riprendendo le parole del Rivella che «l’impiantistica è stata concepita prima del concetto stesso del vino» e risale quantomeno al primo periodo del Bronzo(11) così come i numerosi reperti archeobotanici e archeologici dimostrano.

produzione di vino da datteriFig. 2- Produzione di vino da datteri.
«Prima del vino d’uva era molto diffuso nel mediterraneo orientale sia il vino di linfa di palma (ottenuto incidendo il giovane germoglio centrale) sia quello di datteri (in accadico sikaru). Qui è raffigurata la produzione di vino da datteri desunta da una tomba di Tebe in Egitto del 1900 a. C. A destra, si schiacciano i frutti in un grande vassoio. Alle spalle dell’operatore, il prodotto viene filtrato attraverso uno staccio nel recipiente di fermentazione. Al centro, si procede alla decantazione. A sinistra, le anfore, una volta riempite, vengono poi sigillate e accatastate. Oltre al vino di datteri e di palma, era diffuso quello di melograno, fico, loto, miele, carrubo e d’altri ancora» (cfr. Forbes R.J., 1961; in Forni G., 1996, p. 36, fig. 2)

Riportiamo, al riguardo, in figura 2 ciò che meglio di qualunque altra descrizione e racconto può esemplificare il concetto da noi precedentemente sostenuto.

Ora è utile chiarire quali sono stati i modelli abitativi del Neolitico e dell’età del Bronzo e per far questo prenderemo a riferimento le due maggiori civiltà della Val padana, ossia la civiltà di Golasecca, località nei pressi del Lago Maggiore che si estendeva tra l’attuale provincia di Vercelli e l’attuale provincia di Bergamo e la civiltà d’Este, estesa allora tra il Lago di Garda e l’attuale provincia di Treviso.

In queste due situazioni i rinvenimenti di reperti archeobotanici che documentano l’avvenuta operazione di spremitura-pigiatura di frutti di piante infestanti nei pressi delle palafitte di Varese e Peschiera sono consistenti.

Le informazioni sulle strutture sono assai scarse e limitate, specie del periodo del Neolitico, mentre sono riscontrabili maggiori ritrovamenti per quanto riguarda l’età del Bronzo. L’analisi dei modelli insediativi tuttavia si complica, in quanto non esiste un’unica tipologia a cui potersi riferire e con pochi elementi in comune (Fasani L., Guerreschi A., Lanzinger M., Salzani L.., 1987).

Essi, si differenziano ulteriormente a seconda che si trovino in pianura oppure in zone montuose e ancora in zone umide o all’interno delle grotte.

ricostruzione palafitteFig. 4- Ricostruzione palafitte.
(in Terra Insubre, 2000, a. V, n. 13)

palafitte di fiaveFig. 3- Palafitte di Fiavé (TN).

 Qui in trentino le «testimonianze più antiche di vinaccioli, (.), risalgono all’Età del Bronzo (Fiavé-Casera, Molina di Ledro, Trento Riparo Gabon). I vinaccioli sembrano appartenere alla sottospecie silvestris» (Forni G., 1996, p. 192).

 

Gli insediamenti che hanno caratterizzato maggiormente il territorio e con una certa continuità il Neolitico sono quelli palafitticoli i quali, malgrado le differenti culture da luogo a luogo, si ripeterono similmente.

 

Troviamo, infatti, la presenza di complessi palafitticoli sia nell’area golasecchiana ma anche nel vicentino, nelle palafitte di Fimon, analoghe strutture nei pressi del Laghetto del Frassino a Peschiera (VR), le palafitte dell’età del Bronzo a Fiavé (TN) del Lago di Ledro (figg. 3-4) fra le quali sono le meglio conservate.

<<Gli insediamenti padani – scrive il prof. Andrea Rognoni – del secondo millennio avanti Cristo erano basati sulle costruzioni dette “palafitte”, capanne potremmo dire aeree, perché comunicanti col terreno solo attraverso pali più o meno alti di legno, al fine di evitare umidità e rischio di inondazioni: sorgevano infatti vicino o non lontano da fiumi e laghi, vissuti soprattutto come fonte di acqua e vita>>(12).

In molte località settentrionali della penisola sono state rinvenute anche abitazioni neolitiche ricavate nelle grotte, com’è il caso di Gabon nel trentino, oppure a Monte Covolo nel bresciano e non si esclude che anche in Lessinia, nel veronese, potessero esistere simili insediamenti (Fasani L., 1987 , p. 26) così come nel trevigiano.

...continua.
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